lunedì 17 febbraio 2014

MUSEO STIBBERT

Il Museo Stibbert si trova nel centro di Firenze, dove un tempo vi abitava il suo fondatore e proprietario: Frederick Stibbert. 
Di famiglia metà inglese e metà italiana, il signor Stibbert fu sempre molto legato alla sua dimora fiorentina, dove iniziò a raccogliere manufatti di ogni tipo e provenienza, fino a quando, con la sua morte, la lasciò alla città di Firenze con l'unica clausola che fosse adibita a museo e che, in caso non fosse mantenuta al meglio, che ogni oggetto, quadro o decorazione al suo interno fossero rimandati all'altra sua patria, l'Inghilterra.

Il museo presenta moltissimi oggetti europei, mediorientali, cinesi e giapponesi, come armature del Cinquecento, quadri di artisti famosi, ceramiche, porcellane e tappezzerie, oltre che tessuti di grandissimo valore e manifattura pregiata.
Una caratteristica di questo museo è che ogni stanza presenta una tematica specifica e quindi una funzione: ricordiamo per esempio la Quadreria, che è quella con cui si apre la visita, la stanza Mediorientale, quella della Cavalcata, la stanza di Ceramica e l'intera ala dedicata ai manufatti di origine Giapponese, che ne presenta oltre 1800, tra armature, katane e ventagli di ogni genere.

Nella stanza Mediorientale troviamo le decorazioni tipiche dell'Alhambra spagnola, probabilmente studiate e ricreate apposta su commissione di Stibbert stesso: al suo interno possiamo osservarvi vestiti e armi arabe, oltre che a delle splendide armature colorate.  Per gli arabi la luna era il simbolo dell'uomo, freddo e mortale, mentre il sole quello della donna (madre, vita e calore), ma nelle armature ritroviamo sia il giallo che l'argento, in quanto i guerrieri dovevano avere le caratteristiche sia dell'uomo che della donna per essere persone equilibrate. Inoltre sulle armi vi possiamo leggere (anche se sono in arabo) delle scritte: sull'elmo c'è scritto "Dio proteggimi", mentre sulla spada "Dio perdonami".

Nella stanza della Cavalcata vi troviamo una figura molto importante posta in alto: San Giorgio a cavallo con ai piedi il drago morto. San Giorgio era il protettore dei cavalieri, nessuna sorpresa quindi che si trovi proprio qui, dove molti guerrieri a cavallo armati di lance e protetti da spesse armature sembrano marciare verso un indefinito nemico.

La stanza di Ceramica, situata accanto a quella per il ballo, fu creata apposta per i fumatori, in quanto era facilmente pulibile dai residui di fumo, inoltre, tra le varie decorazioni, possiamo osservare dei piccoli motti, messi lì appositamente per facilitare la conversazione tra gli uomini che si trovavano al suo interno.


Altre stanze particolari sono quella con le bandiere delle contrade di Siena, che riproduce un padiglione da battaglia dei capitani; la stanza stile impero che presenta un arredamento e quadri in stile neo-classico; la camera da letto per la madre, con lo specchio "Psyche"; e ultima ma non ultima, la stanza dove vi è conservata la veste di Napoleone di quando nel 1805 andò a Milano, infatti è in verde. Questa veste, anche se non del tutto completa, è particolare nelle decorazioni, che presentano la tipiche "N" di Napoleone e un'ape (che in realtà è un giglio rovesciato), simbolo del suo potere di imperatore che ha rovesciato la monarchia.




Arianna De Stefano

domenica 16 febbraio 2014


Report del Museo Stibbert

Il Museo Stibbert si trova a Firenze sulla collina di Montughi ed è stata la residenza dell’omonimo Frederick Stibbert dal 1849 al 1906: nacque in Toscana nel 1838 ma passò l’infanzia in Inghilterra, discendeva da grandi combattenti inglesi e alla morte del padre la madre decise di tornare a Firenze e di abitare nell’attuale museo lasciando al giovane Frederick tutto il patrimonio sia del padre che degli zii perché unico erede maschio.
 Dedicò presto la sua attenzione alla collezione per la quale egli stesso creò grazie all’eredità che il nonno, Sir Giles Stibbert, per anni Generale dell’esercito della Compagnia delle indie e Governatore del Bengala aveva raccolto in estremo oriente e soprattutto oggetti di cultura indiana. Frederick approfittò della sua molteplice natura di finanziere internazionale, viaggiando e collezionando per quasi cinquanta anni, fino a che la morte lo cogliesse a quasi settanta anni. Il museo si snoda attraverso le passioni di Stibbert e le stanze sono state attribuite a periodi e generi ben precisi: nella Sala della Cavalcata sono raccolte diversi modelli di armature, pugnali, lance, punte, spade, speroni ed ogni strumento e armatura sono state studiate per qualsiasi situazione e movimento; in gran parte sono collocabili al cinquecento e  provengono da scuole italiane, tedesche, francesi e rispondono alle esigenze della guerra o dei vari tipi di gioco guerresco. Tra una moltitudine di messaggi ( come ad esempio la collata che tiene il cavaliere in mezzo alla sala) e le varie incisioni che particolarizzano tutti gli oggetti, non sarà da meno ricordare che sopra alla porta del salone vi è posta una grande statua equestre che rappresenta la figura di San Giorgio mentre combatte con il drago e va a simboleggiare e ad onorare il patrono dei cavalieri.

Due sale sono state adibite all’armeria Islamica dove si trovano armi e armature provenienti dal Vicino e dal Medio Oriente mussulmano. Parlando di oriente bisogna ricordare l’importanza e il simbolismo dei colori che li differenzia in base al sesso e al ruolo: la donna prende i colori del sole mentre l’uomo quelli della luna e il guerriero essendo una persona equilibrata li indossa entrambi. Al centro sono collocati una serie di guerrieri islamici alcuni in sella ai loro destrieri mentre altri sono in piedi e sono a grandezza umana. Uno delle tante cose che può affascinare lo spettatore è l’incredibile capacità con cui sono state ambientate le diverse sale. Le pareti della sala Moresca o Islamica sono state ornate a stucchi bianchi richiamanti l’architettura musulmana dell’ Alhambra, analizzandoli possiamo vedere che al loro interno sono presenti delle scritte, mentre sugli elmi persiani e arabi possiamo ritrovare scritto “ Dio proteggimi” e sulle loro spade “ Dio perdonami”.

Sono rimasta stupefatta dall’eros del ‘500 che portava con se il guerriero: furono realizzate dei ricarica fucili con sopra incise delle scene erotiche di diverse dimensioni e fantasie.

Oltre alla vasta collezione di armi all’interno del museo si possono trovare abiti, tappezzerie, ceramiche e porcellane provenienti dalla Germania, Cina, Giappone e dall’Italia. In una stanza sono state collocate le bandiere di Siena come padiglione di guerra ma non troviamo più le originali ma ben si delle copie perché furono realizzata in seta e dopo tanti secoli si sono decomposte.

Inoltre viene conservato il petit habit di Napoleone I, che l’Imperatore ha indossato in occasione della sua incoronazione a Re d’Italia e diversi cimeli ed abiti di epoca napoleonica.

Nel 1887 con l’inaugurazione della Cattedrale di Santa Maria del Fiore lo Stibbert comprò i tessuti della chiesa perché “sciupati” e ci allestì una sala all’interno del museo: purtroppo molti tessuti dopo la rivoluzione furono bruciati dai cittadini perché erano filati con l’oro e alcuni di essi non sono presenti nella collezione.

Il museo presenta una notevole quantità di dipinti falsi ma anche originali di artisti noti e il principale motivo è quello di ricordare allo spettatore quale fosse l’abito, l’armatura e il pensiero del periodo a cui è stato assegnato alla sala.

Al piano terra è presente una bellissima sala da ballo affiancata alla stanza da fumo che da sul giardino: è stata realizzata in porcellana in modo che il fumo non si impregni nelle mura. Il museo nei piani superiori presenta inoltre una collezione di armature e oggetti provenienti dal Giappone come anche armi e rotoli dipinti chiamati “ emakimono”.

La villa è stata visitata anche da nomi prestigiosi come Oscar Wilde, Gabriele D’ Annunzio e dalla Regina Vittoria nel marzo del 1894.

Per salvaguardarne poi l'integrità, Frederick decise che alla sua morte avvenuta nel 1906, esso venisse costituito in museo pubblico affidato alla città di Firenze: egli lasciò tutto il suo patrimonio museale in prima istanza alla Nazione Britannica, e in caso di rinuncia alla Città di Firenze che subentrò infatti al primo legatario. Gli obblighi, puntualmente assolti, erano di mantenere le collezioni nel luogo e negli ambienti per loro pensati e di aprire il Museo al pubblico per la conoscenza degli studiosi e l'educazione dei giovani.

Laura Lombardi

mercoledì 12 febbraio 2014

Relazione Museo Stibbert - Fenzi Vittoria

Il Museo viene donato alla città di Firenze dal collezionista d’arte ed imprenditore italo-inglese Frederick Stibbert (1838-1906).
All’interno del museo si contano circa 4000 oggetti, tra abiti, armature, dipinti, porcellane, tappezzerie e molto altro, legati da un elemento comune quale la storia del corpo e dell’abito, questo aspetto rispetta l’esposizione tematica delle collezioni tipica della cultura Ottocentesca.
Gli oggetti, appartenendo a differenti epoche e culture, sono organizzati opportunamente in diverse sale. Tra queste ricordiamo la sala araba, la sala delle armature, la sala dei tessuti, le sale giapponesi e persino una sala che ricorda un accampamento militare con le bandiere delle contrade di Siena appese al soffitto.
Nella sala araba mi ha colpito molto il significato dei rombi di due colori disegnati sulle armature dei guerrieri: luna e sole. In Medio-Oriente, infatti, l’etica dei guerrieri prevedeva che essi rappresentassero entrambi gli elementi, a differenza della cultura europea in cui la donna rappresentava la luna e l’uomo il sole.
Un’altra sala della casa-museo che mi ha incuriosito è stata la stanza da fumo, con le pareti rivestite completamente in ceramica affinché non venissero impregnate dal fumo dei gentiluomini. Sulle mattonelle si notano delle scritte: sono motti virili che davano la possibilità di intavolare un discorso tra gli uomini che condividevano la stanza, pur non conoscendosi. L’opera in ceramica è datata 1899 e firmata Cantagallo.
Spostandomi nella sala dedicata al Giappone ho trovato molto interessante un particolare materiale con cui è rivestito uno dei numerosi foderi per katane: la pelle di pesce. Molto curioso è il fatto che la pelle di pesce venne usata in tempo di guerra, e quindi in mancanza di materiali adeguati, da Salvatore Ferragamo per rivestire un paio delle sue famosissime scarpe, anche se, pare, lo stilista non abbia mai visitato il museo e quindi non possa aver tratto spunto dall'oggetto giapponese.
Questa visita è stata molto interessante e costruttiva poichè le collezioni del Museo Stibbert  ripercorrono la storia del costume uscendo anche dai confini europei, questo grazie al personaggio di F. Stibbert che ha saputo cogliere l’importanza di comprare e collezionare oggetti di culture straniere anche quando esse non erano ancora di moda.






Armatura araba 




















Scarpa in pelle di pesce, Salvatore Ferragamo






Vittoria Fenzi

lunedì 10 febbraio 2014

STORIA DELLA MODA DEL XX SECOLO - GERTRUD LEHNERT

In questo brano viene affrontata la storia della moda dal 1900 al 1918 . 
Innanzitutto la Lehnert fa una distinzione fondamentale tra costume, segno di tradizione, staticità e permanenza nel tempo, e abito, segno, invece, di individualità e cambiamento continuo.
Possiamo parlare di moda a partire dal XIX secolo, quando passa in primo piano ciò che è bello, nuovo e ornamentale a dispetto di tutto ciò che è solo strettamente funzionale, e aumenta la libertà di scelta del proprio abbigliamento. Per arrivare ad oggi, dove l’unico limite di scelta del nostro vestiario è la possibilità finanziaria ed in poche occasioni dobbiamo sottostare a canoni di abbigliamento precisi.
La moda è significato di transitorietà e mutamento continuo, nonostante questo però i capi d’abbigliamento non sono solo prodotti di consumo bensì interpretazioni del nostro mondo, proprio come l’arte. Una forma d’arte che ritroviamo nel campo della moda è sicuramente l’haute couture (alta sartoria): la moda delle sfilate, degli spettacoli e della fotografia.
L’haute couture, che nasce nel XIX secolo, inizialmente rappresentava la moda stessa, mentre adesso è solo un mezzo pubblicitario per lo stilista ed il suo brand. Affinché un capo possa essere definito di haute couture, lo stilista deve impiegare un minimo di 20 sarti e portare a Parigi due collezioni all’anno di almeno 75 modelli lavorati a mano e su misura.
Dagli anni ’60 si diffonde il prêt-à-porter (in America ready-to-wear, già diffuso dagli anni ’40), ovvero l’abbigliamento moderno, disegnato dallo stilista ma prodotto industrialmente e distribuito su vasta scala, per cui più accessibile. Ma esiste anche un altro tipo di moda, quella confezionata, ovvero quella degli abiti prodotti in serie, di minor qualità e costo. In questo caso non ha più importanza la creazione, i capi devono essere facilmente portabili e vendibili ma devono comunque seguire le tendenze della moda, dalle quali non si può fuggire.

Il XX secolo è il secolo delle grandi rivoluzioni: in campo storico e sociale (Prima Guerra Mondiale; Rivoluzione Russa; Emancipazione della donna...), nel campo delle invenzioni (Prima auto prodotta in serie...), dell’arte (Cubismo; Futurismo...) e della moda, nella quale c’è stato l’allontanamento da tutti gli stili precedenti .
Infatti in questo secolo le donne aprono l’armadio dell’uomo e cominciano ad indossare i pantaloni, prima un tabù per loro, giacche con spalle larghe, pullover a collo alto e scarpe basse. Ed i cambiamenti non sono solo nell’abbigliamento poiché, al ritorno dalla guerra, gli uomini, a causa della loro prolungata assenza, trovano una “donna lavoratrice” con la tuta da operaio o alla guida dei mezzi pubblici…
Questa differenza tra i sessi è un elemento fondamentale del fenomeno moda, poiché in base alle sue diverse tendenze vengono determinati i criteri per cui qualcosa è giudicato maschile o femminile. 

Qualunque donna nel secolo XVIII sa maneggiare ago e filo per essere in grado di rammendare i vestiti della famiglia in caso di necessità, perciò si cominciano a preconfezionare alcuni capi d’abbigliamento che non dovevano necessariamente corrispondere alle misure della donna che doveva indossarli. Le donne borghesi, quindi, una volta comprati i capi semi-confezionati, possono finire di cucirli e decorarli a piacimento. Ecco come nasce il prêt-à-porter. 

A metà del XIX secolo, lo stilista inglese Charles Frederick Worth crea l’haute couture, non confezionando più vestiti ma sviluppando singole collezioni per le sue clienti dell’alta società che devono scegliere soltanto il tessuto tra una serie di opzioni adatte per qualità e disegno al modello prescelto. 
Fino al XVIII secolo gli uomini si vestono, allo stesso modo delle donne, con abiti ricchi, colorati e sfarzosi, ma dopo la Rivoluzione francese e sotto l’influenza della gentry inglese l'abbigliamento maschile diventa più semplice e sobrio in tutta Europa. La moda è dunque diventata un “dovere” delle dame, infatti i mariti lasciano alle mogli l’ostentazione della ricchezza e dell’ozio poiché strettamente collegati con il loro successo. 

Fin dalla fine dell’Ottocento era in voga l’ideale di bellezza della donna con il “vitino di vespa” ma la casa parigina di Worth apporta una modifica con l’introduzione della linea a “S” che comunque solo il corsetto continua a garantire. Vengono introdotti nuovi e molteplici tipi di corsetto che dividono in due la donna legando pancia e fianchi talmente stretti da farli sparire: la “cintura di Parigi” rinforzata con corno, l’ “empire” con forma sinuosa e rinforzata con fili d’acciaio più elastici e leggeri, il “corsetto ortopedico” che non doveva aderire troppo al corpo ed era sorretto da spalline. 

Contro l’abitudine del corsetto si sollevano molte proteste e movimenti riformistici, tra i quali quelli di medici, pedagoghi, artisti e sociologi che la criticano perché nociva alla salute e innaturale.
L’architetto e artista Henry Van De Velde si oppone alla moda 'amorale' prediligendo una moda meno soggetta a cambiamenti e che unisse bellezza e utilità, inoltre sostiene che i sarti non usino il corsetto per valorizzare il fisico della donna bensì per valorizzare le loro creazioni, non intendeva perciò abolire il capo ma conferirgli un nuovo significato. 
Ad un’architettura riformata devono abbinarsi abiti riformati, che si sviluppano ma non riscuotono successo perché troppo austeri: coprono interamente il corpo ed sono solitamente di colore nero, ma hanno comunque posto il problema del collegamento tra estetica e comodità (anche questo sempre riguardo alla moda femminile poiché quella maschile era stata da sempre abbastanza comoda). L’unico che tenta di riformare la moda maschile fu il pittore austriaco Gustav Klimt, esponente dell’Art nouveau, che indossava camiciotti ampi disegnati da lui stesso, che si allontanavano molto dallo stile maschile dell’epoca. 

Paul Poiret è un altro stilista riformista che crea una linea di abbigliamento opposta a quelle dell’epoca e contribuisce alla definitiva abolizione del corsetto realizzando nel 1906 il primo abito senza corsetto con linea sciolta e naturale. Secondo lui la bellezza naturale della donna doveva essere aiutata solo da un reggipetto e una fascia contenitiva.
I suoi abiti lasciano libertà di movimento a chi li indossa, tra questi il taglio stile impero del XIX secolo senza il segno della vita, stretti solo sotto il seno e poi dritti verso il basso, e poi tuniche, pantaloni harem, tagli da kimono per cappotti e giacche e turbanti per ornare le teste, rivoluzionari rispetto ai copricapi ampi e decorati che erano in voga fino all’inizio della prima guerra mondiale. 
Poiret è infatti molto influenzato dallo stile orientale unito alla moda storica e folcloristica, che lo porta all’uso di tessuti quali il velluto, la seta, la mussola, stoffe velate e garze sottili di colori molto accesi, in contrasto con i colori dell’epoca che erano unicamente malva, blu e grigio. 

Ci sono molti altri artisti influenzati dallo stile orientale, come la compagnia dei Balletti Russi che porta in scena coreografie romantiche e orientaleggianti, dando spunto a molto artisti.
Questa influenza trova le sue radici nell’esotismo del XIX secolo che si protraeva lentamente si dal XVII secolo con artisti come il pittore Paul Gaugin . 

Mariano Fortuny, spagnolo residente a Venezia, è uno degli orientalisti più famosi dell’epoca. Ispirandosi alle forme dell’antica Grecia introduce delle tuniche dette “delphos”, fortemente innovative per la semplicità delle forme abbinate a tessuti e decorazioni ricercate come sete plissettate e colori brillanti, ma realizza anche pesanti abiti in velluto ispirati ai ritratti rinascimentali italiani .

Gli abiti di Poiret e Fortuny sono però ben lontani da quelli indossati dalla maggior parte delle donne, in generale la moda dal 1907 in poi era più lineare, sobria e severa. Le gonne erano più strette e corte e lasciavano intravedere i piedi, gli abiti a due pezzi e accollati, i cappelli continuarono ad essere grandi e decoratissimi, si cominciarono ad indossare le tuniche e i tailleur con la giacca lunga fino al ginocchio.

Il XX secolo è anche il secolo di movimenti come il Futurismo che ha come ideali la tecnica, la velocità e la guerra. Secondo i futuristi la vita deve essere un tutt’uno con l’arte e deve adattarsi alla velocità dei tempi nuovi abbandonando le tradizioni borghesi. 

Nel suo Manifesto del 1914, Giacomo Balla, uno degli esponenti del movimento, esige di sostituire tutto ciò che è cupo e goffo dell’abbigliamento maschile con capi dinamici, asimmetrici, colorati e variabili. Dopo lo scoppio della guerra modifica il Manifesto affermando che l’abbigliamento non deve più dare alle persone voglia di vivere e dinamismo ma renderle aggressive e bellicose. 

Durante la guerra la moda del prêt-à-porter, ma non quella dell’haute couture, subisce importanti modifiche, nonostante l’arruolamento volontario e non degli stilisti e la scarsità dei materiali. L’abbigliamento maschile non varia molto perché gli uomini indossano perlopiù sempre divise, mentre quello delle donne diviene più severo e funzionale. La silhouette più affusolata, le gonne leggermente più corte, sulle giacche e sui cappotti si trovano elementi militari, i cappelli diventano più piccoli e meno decorati, le pettinature più semplici. Si diffonde la crinolina da guerra, una sottana ampia e lunga fino ai polpacci con diverse sottogonne, linea che verrà ripresa negli anni ’40. 
Con la fine della guerra gli abiti tornano dritti, con larghe tasche a sacca che torneranno di moda negli anno ’80. 
Negli anni ’20 la crinolina da guerra continua ad esistere ma come abito elegante, grazie al quale diventa famosa la stilista Jeanne Lanvin. 

In conclusione possiamo affermare che anche solo in un decennio, come quello del primo Novecento, l’abbigliamento, soprattutto femminile, subisce numerosi cambiamenti. Parallelamente al cambio di abbigliamento vediamo l'emancipazione femminile e il progressivo aumento della fiducia delle donne in se stesse...ma anche degli stilisti nelle donne! 


Vittoria Fenzi

sabato 25 gennaio 2014

L’essenza della moda è sì cambiamento, ma soprattutto fugacità del cambiamento stesso...



( link su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=7JxfgId3XTs )

Chiara Cesaraccio

venerdì 20 dicembre 2013



La necessità del breviario della Moda nasce dall' esigenza di darle la giusta importanza: molte volte infatti viene presa "sottogamba", apparentemente futile e leggera. Invece la Moda è un fenomeno che abbraccia tutta la nostra storia perchè vi attinge per darsi nuova forma e nuovi spunti, ha attraversato diverse fasi e periodi storici.
Per questo è importante approfondire la nostra storia, studiare il passato ci da le basi per capire l evoluzione del presente e le sue motivazioni, dobbiamo avere conoscenze più radicate, non basate su una veloce ricerca che ci troviamo davanti dopo aver fatto un 'clik'.
Inoltre la Moda non riguarda solo abiti (come spesso si pensa), ma è un qualcosa che riguarda tutte le persone del mondo: anche se 'non si vuole fare moda', la si fa! Involontariamente. Non vestirsi come dettano le mode è moda, essere rivoluzionari è moda, vestirsi nel modo più semplice possibile è moda. Facciamo Moda anche non volendo.

Più stiamo attenti vestendoci con 'modernità', più vogliamo collocarci  nella storia attuale, anche se la Moda ripropone vecchi trend (rivisti da capo a piedi, ma pur sempre già esistenti)che ritornano sulla scena.
Lo scopo del breviario è anche quello di affrontare in modo cronolgico l'evoluzione della Moda nei secoli, il perchè dei bustini o delle cravatte. Tutte queste cose hanno motivi e idee dietro, ci son delle ragioni del perchè esistono e tutto ciò è legato alla storia. Noi siamo travolti dalla Moda. Essendo senza confini, essa cambia per nazione, per necessità lavorative, climatiche, politiche e sociali (proprio in quest'ultimo troviamo veri e propri tentativi di esclusione sociale).

Negli anni, gli abiti hanno avuto forme e accessori particolari, mirati a modificare il corpo di chi li indossa per adattarlo ai canoni del periodo, canoni estetici che variavano secondo i tempi e luoghi.
Prendiamo, ad esempio, le gonne allargate con le imbottiture: oggi potremmo paragonarle alle nostre gonne a 'palloncino' (come abbiamo detto prima, la Moda ripropone in forma rivisitata). 
Se i primi cerchi erano costruiti con materiali rigidi, nella Spagna del 400/500 si costruivano con i verdugali, stecche concentriche di materiale flessibile, denti di balena (flessibili) o in vimini. Portati prima sopra e poi sotto la gonna, i cerchi vennero criticati dalla comunità ecclesiastica, sostenendo che non solo rendevano le donne deformi ma veniva visto come un rifiuto del corpo che Dio aveva creato. Inoltre i colori  dovevano essere naturali, qualsiasi trucco o acconciatura mirato ad ingannare l'occhio di chi guarda veniva condannato.
 I verdugali spagnoli si adottarono anche in Francia, Italia ed Inghilterra in forme diverse, esagerate, mirate ad 'allontanare' le classi inferiori nel caso di Elisabetta, quindi non solo per questioni estetiche. Erano vere e proprie costruzioni al limite della vestibilità, che poco dopo vennero usate anche fuori dalla corte. 
Parente del verdugale era il ''guardifante", creato in Francia nell'età barocca e proposto in Spagna, veniva usato principalmente per nascondere le gravidanze (in Italia fu severamente vietato da norme restrittive per lospreco di tessuto).
Arrivano nel secondo Seicento, linee più eleganti e naturali, ma sempre con lievi rigonfiamenti. Questo cambiamento venne adottato grazie all'arrivo di tessuti leggeri dall'India come il cotone, le gonne avevano più cerchi ed era il periodo dell'Andrienne, una veste larga e molto comoda che dava però l'impressione di una vita stretta e una silhouette sottile.

Grande successo ebbero poi I rigofiamenti ai lati della gonna, detti 'paniers', come i cesti che venivano messi agli asini per il trasporto di merci. Diventarono indumento necessario alla vita di corte: erano segno di cura estetica, attenzione all'etichetta e armoniosità del corpo. Successivamente vennero accompagnati da parrucche e ornamenti per il capo, anche molto esagerati, che rendevano impossibili i movimenti, rendendo le donne manichini da esposizione. 
nell'età della Restaurazione,dopo gli anni Napoleonici, le vesti ritornarono sontuose con i rigonfiamenti, dopo aver avuto linee più comode e funzionali alla fine del Settecento: la gonna doveva partire dalla vita larga e soffice, dando l'idea di un vitino sottile che spuntava da una nuvola di soffice tessuto, come un fiore. Per mantenere la forma della gonna si iniziò ad usare la criolina, sottogonna di crine lavorato, che sollevava anche la gonna da terra. Le gonne erano così gonfie anche perchè avevano vari strati di tessuto e la criolina rendeva tutto leggero ed ondeggiante, oltre che molto scomodo.
Nel novecento tutti i rigonfiamenti ai lati sparirono per andare nalla parte posteriore (infatti chiamati tornure o fax cul), enfatizzando il punto vita. Novità per le donne nel XIV e nel XV secolo fu la hoppelande, sia in Italia che in Francia: un vestito prèmaman. 
Infinine la liberazione da costrizioni per il corpo femminile fu dato da Coco Chanel, una nuova moda senza bustini e forme estranee al corpo, mentre Christian Dior ripropose le gonne larghissime e i corsetti, che non passeranno mai di moda.      
               
                                                                                                                         Tea Azzena

lunedì 9 dicembre 2013

SVENDSEN "FILOSOFIA DELLA MODA"

Filosofia deriva dal greco “phileiv”, “amare”, e “sophia”, “sapienza”; amore per la sapienza che ha come tèlos la riflessione sul mondo e in particolare sull’uomo, sulla comprensione della sua identità.
Identità che l’uomo tenta di mostrare al mondo esterno tramite non solo comportamenti e atteggiamenti, ma anche attraverso ciò che, secondo Hélène Cixous, sono il prolungamento del nostro corpo: gli abiti. Questi, infatti, non sono qualcosa di esterno rispetto all’identità dell’individuo, bensì sono parte dell’individuo stesso, perché l’uomo si relaziona con gli altri ed esprime se stesso attraverso l’apparenza esteriore che è indissolubilmente legata alla moda. L’esteriorità deve quindi corrispondere all’interiorità, perciò gli abiti divengono una chiave di lettura della realtà nel “Sartor Resartus” di Thomas Carlyle, dove “tutto l’Universo esteriore e tutto ciò che nell’Universo è contenuto non è che Veste: la Essenza di ogni Scienza si trova nella filosofia degli abiti”. Egli comprende l’importanza decisiva degli abiti e della moda nella costituzione dell’io umano, mostrando la possibilità di rendere la moda un soggetto dell’indagine filosofica, in quanto tra essa e l’identità del singolo esiste una connessione, e scandagliare l’io umano è uno degli obbiettivi della filosofia.
La moda è talmente determinante nella costituzione sociale del sé che l’identità non proviene più dalla tradizione, bensì ognuno, di libera iniziativa, sceglie chi vuole essere, o meglio, chi vuole interpretare, ma paradossalmente talvolta si vuole palesare la propria identità specifica in modo così lapalissiano che si finisce per essere “espressione di un’impersonalità astratta”.
Il concetto di moda non si limita solo al campo dell’abbigliamento, bensì ha un retaggio molto più ampio in quanto, secondo il filosofo e sociologo George Simmel, “fenomeno diffuso applicabile a tutti i campi sociali”.
Si può quindi parlare di moda come una logica, un meccanismo generale, che ruota intorno a rapidi cambiamenti, sia che siano cambiamenti generali nelle abitudini di vita, come per Kant, sia che siano cambiamenti in ambito morale, come per Novalis. Cambiamento che risulta essere, secondo il pensiero di Elisabeth Wilson, il tratto caratteristico della moda, il quale, però, non può essere ritenuta una condizione necessaria e sufficiente, poiché tutto cambia, ma non tutto necessariamente è moda.
Da questa impossibilità di definire il suddetto vocabolo come segnalazione di una determinata caratteristica applicabile a diversi ambiti, Svendsen utilizza l’approccio wittgensteniano chiamato “somiglianze di famiglia”: non essendovi tratto comune che incorpori tutti i giochi, essi sono legati tra loro da una rete di somiglianze, così come .la moda. Diretta conseguenza di ciò è l’impiego di esempi su ciò che è, o meno, moda.
Possiamo chiamare moda un cambiamento frequente desiderato in sé e per sé, perciò la sua origine è stata collocata nel tardo Medioevo durante lo sviluppo del capitalismo mercantile, in quanto in questo periodo le modificazioni delle forme degli abiti, e quindi nell’abbigliamento della gente, avvenivano in modo sostenuto e per piacere del cambiamento fine a se stesso.
Questa concezione raggiunse il suo acmè nel XVIII secolo, ove il vestiario venne usato per far sfoggio del proprio status sociale, ostentazione necessaria nella lotta di potere tra borghesia cittadina e aristocrazia feudale, e ove le innumerevoli pubblicazioni di riviste specialistiche aumentarono la velocità di informazione sulle mode del momento.
Moda del “momento” letteralmente, perché dal Settecento in poi i cicli tra un cambiamento e l’altro cominciano a diventare sempre più ravvicinati: l’essenza della moda è il cambiamento per giungere al “nuovo”, perché “è la novità che fa amare la moda” (Kant).
Questo spirito di rottura rispetto alla tradizione, di liberazione dalle autorità, a detta di Nietzsche, dove “ogni nuova Moda è […] sovvertimento contro l’oppressione della vecchia Moda” (Roland Barthes) e il costante anelito al “nuovo”, accomunano moda e modernità. Il discrimen tra i due concetti risiede nel fatto che la modernità vede se stessa come un cambiamento che conduce verso un’autodeterminazione sempre più razionale, mentre il “nuovo” nella moda in realtà coincide con il cambiamento seguente, senza lo scopo di migliorare un oggetto (ad esempio rendendolo più funzionale), quindi la vera essenza della moda è il cambiamento per il puro cambiamento.
Possiamo apostrofare la moda come “irrazionale” proprio per il fatto che non ha altro scopo se non quello di essere potenzialmente infinita, di creare “nuove forme e costellazioni all’infinito”.
Le novità delle tendenze, però, nascono sulla base di quelle precedenti, quindi esiste un limite a questa infinita novità che la moda si propone di trovare in un lasso di tempo sempre più ridotto, sempre più incalzante.
Tempo e spazio sono stati talmente compressi che hanno portato alla deformazione della temporalità della moda stessa: da lineare a ciclica, quasi un “anakyklosis” polibiana in cui l’introduzione di una moda prevede il degenero di essa e l’immediata sostituzione con un’altra, dove la vera novità non risiede nel ricreare nuove forme, ma nel giocare con quelle vecchie, un gioco tra ricordo del passato per riciclarlo e oblio del medesimo.
L’essenza della moda è sì cambiamento, ma soprattutto fugacità del cambiamento stesso, ove quest’ultimo coincide con il riciclo rielaborato di mode passate, il nuovo che caratterizza la categoria del presente coincide paradossalmente con il passato.
Il riciclaggio, dagli anni Novanta in poi, ha raggiunto un ritmo talmente frenetico da annullare l’intervallo di tempo che esisteva tra una moda e l’altra, caratterizzando il presente come una copresenza e contemporaneità di tutti gli stili, tanto che “nella società moderna nessun abito resta al di fuori della moda” (Elisabeth Wilson).
La logica sostitutiva, nella quale una tendenza nuova subentrava a quelle vecchie, viene surclassata da una logica suppletiva, dove una moda si aggiunge alle precedenti, dove le mode “si accumulano”, dove la moda non è un qualcosa in fieri, non c’è alcun progresso, vi è solo un continuo riciclo.
“Se la moda si è trasformata in riciclaggio, allora può anche permettersi di riciclare se stessa” giungendo molto probabilmente all’annichilimento.



Chiara Cesaraccio