Filosofia deriva
dal greco “phileiv”, “amare”, e “sophia”, “sapienza”; amore per la sapienza che
ha come tèlos la riflessione sul mondo e in particolare sull’uomo, sulla
comprensione della sua identità.
Identità che l’uomo
tenta di mostrare al mondo esterno tramite non solo comportamenti e
atteggiamenti, ma anche attraverso ciò che, secondo Hélène Cixous, sono il
prolungamento del nostro corpo: gli abiti. Questi, infatti, non sono qualcosa
di esterno rispetto all’identità dell’individuo, bensì sono parte
dell’individuo stesso, perché l’uomo si relaziona con gli altri ed esprime se
stesso attraverso l’apparenza esteriore che è indissolubilmente legata alla
moda. L’esteriorità deve quindi corrispondere all’interiorità, perciò gli abiti
divengono una chiave di lettura della realtà nel “Sartor Resartus” di Thomas
Carlyle, dove “tutto l’Universo esteriore e tutto ciò che nell’Universo è
contenuto non è che Veste: la Essenza di ogni Scienza si trova nella filosofia
degli abiti”. Egli comprende l’importanza decisiva degli abiti e della moda
nella costituzione dell’io umano, mostrando la possibilità di rendere la moda
un soggetto dell’indagine filosofica, in quanto tra essa e l’identità del
singolo esiste una connessione, e scandagliare l’io umano è uno degli
obbiettivi della filosofia.
La moda è
talmente determinante nella costituzione sociale del sé che l’identità non
proviene più dalla tradizione, bensì ognuno, di libera iniziativa, sceglie chi
vuole essere, o meglio, chi vuole interpretare, ma paradossalmente talvolta si
vuole palesare la propria identità specifica in modo così lapalissiano che si
finisce per essere “espressione di un’impersonalità astratta”.
Il concetto di
moda non si limita solo al campo dell’abbigliamento, bensì ha un retaggio molto
più ampio in quanto, secondo il filosofo e sociologo George Simmel, “fenomeno
diffuso applicabile a tutti i campi sociali”.
Si può quindi
parlare di moda come una logica, un meccanismo generale, che ruota intorno a
rapidi cambiamenti, sia che siano cambiamenti generali nelle abitudini di vita,
come per Kant, sia che siano cambiamenti in ambito morale, come per Novalis. Cambiamento
che risulta essere, secondo il pensiero di Elisabeth Wilson, il tratto
caratteristico della moda, il quale, però, non può essere ritenuta una
condizione necessaria e sufficiente, poiché tutto cambia, ma non tutto
necessariamente è moda.
Da questa
impossibilità di definire il suddetto vocabolo come segnalazione di una
determinata caratteristica applicabile a diversi ambiti, Svendsen utilizza l’approccio
wittgensteniano chiamato “somiglianze di famiglia”: non essendovi tratto comune
che incorpori tutti i giochi, essi sono legati tra loro da una rete di
somiglianze, così come .la moda. Diretta conseguenza di ciò è l’impiego di
esempi su ciò che è, o meno, moda.
Possiamo
chiamare moda un cambiamento frequente desiderato in sé e per sé, perciò la sua
origine è stata collocata nel tardo Medioevo durante lo sviluppo del
capitalismo mercantile, in quanto in questo periodo le modificazioni delle
forme degli abiti, e quindi nell’abbigliamento della gente, avvenivano in modo
sostenuto e per piacere del cambiamento fine a se stesso.
Questa
concezione raggiunse il suo acmè nel XVIII secolo, ove il vestiario venne usato
per far sfoggio del proprio status sociale, ostentazione necessaria nella lotta
di potere tra borghesia cittadina e aristocrazia feudale, e ove le innumerevoli
pubblicazioni di riviste specialistiche aumentarono la velocità di informazione
sulle mode del momento.
Moda del “momento”
letteralmente, perché dal Settecento in poi i cicli tra un cambiamento e
l’altro cominciano a diventare sempre più ravvicinati: l’essenza della moda è
il cambiamento per giungere al “nuovo”, perché “è la novità che fa amare la
moda” (Kant).
Questo spirito
di rottura rispetto alla tradizione, di liberazione dalle autorità, a detta di
Nietzsche, dove “ogni nuova Moda è […] sovvertimento contro l’oppressione della
vecchia Moda” (Roland Barthes) e il costante anelito al “nuovo”, accomunano
moda e modernità. Il discrimen tra i due concetti risiede nel fatto che la
modernità vede se stessa come un cambiamento che conduce verso
un’autodeterminazione sempre più razionale, mentre il “nuovo” nella moda in
realtà coincide con il cambiamento seguente, senza lo scopo di migliorare un
oggetto (ad esempio rendendolo più funzionale), quindi la vera essenza della
moda è il cambiamento per il puro cambiamento.
Possiamo
apostrofare la moda come “irrazionale” proprio per il fatto che non ha altro
scopo se non quello di essere potenzialmente infinita, di creare “nuove forme e
costellazioni all’infinito”.
Le novità delle tendenze,
però, nascono sulla base di quelle precedenti, quindi esiste un limite a questa
infinita novità che la moda si propone di trovare in un lasso di tempo sempre
più ridotto, sempre più incalzante.
Tempo e spazio
sono stati talmente compressi che hanno portato alla deformazione della
temporalità della moda stessa: da lineare a ciclica, quasi un “anakyklosis”
polibiana in cui l’introduzione di una moda prevede il degenero di essa e
l’immediata sostituzione con un’altra, dove la vera novità non risiede nel
ricreare nuove forme, ma nel giocare con quelle vecchie, un gioco tra ricordo
del passato per riciclarlo e oblio del medesimo.
L’essenza della
moda è sì cambiamento, ma soprattutto fugacità del cambiamento stesso, ove
quest’ultimo coincide con il riciclo rielaborato di mode passate, il nuovo che
caratterizza la categoria del presente coincide paradossalmente con il passato.
Il riciclaggio,
dagli anni Novanta in poi, ha raggiunto un ritmo talmente frenetico da
annullare l’intervallo di tempo che esisteva tra una moda e l’altra,
caratterizzando il presente come una copresenza e contemporaneità di tutti gli
stili, tanto che “nella società moderna nessun abito resta al di fuori della
moda” (Elisabeth Wilson).
La logica
sostitutiva, nella quale una tendenza nuova subentrava a quelle vecchie, viene
surclassata da una logica suppletiva, dove una moda si aggiunge alle precedenti,
dove le mode “si accumulano”, dove la moda non è un qualcosa in fieri, non c’è
alcun progresso, vi è solo un continuo riciclo.
“Se la moda si è
trasformata in riciclaggio, allora può anche permettersi di riciclare se stessa”
giungendo molto probabilmente all’annichilimento.
Chiara Cesaraccio
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