lunedì 9 dicembre 2013

SVENDSEN "FILOSOFIA DELLA MODA"

Filosofia deriva dal greco “phileiv”, “amare”, e “sophia”, “sapienza”; amore per la sapienza che ha come tèlos la riflessione sul mondo e in particolare sull’uomo, sulla comprensione della sua identità.
Identità che l’uomo tenta di mostrare al mondo esterno tramite non solo comportamenti e atteggiamenti, ma anche attraverso ciò che, secondo Hélène Cixous, sono il prolungamento del nostro corpo: gli abiti. Questi, infatti, non sono qualcosa di esterno rispetto all’identità dell’individuo, bensì sono parte dell’individuo stesso, perché l’uomo si relaziona con gli altri ed esprime se stesso attraverso l’apparenza esteriore che è indissolubilmente legata alla moda. L’esteriorità deve quindi corrispondere all’interiorità, perciò gli abiti divengono una chiave di lettura della realtà nel “Sartor Resartus” di Thomas Carlyle, dove “tutto l’Universo esteriore e tutto ciò che nell’Universo è contenuto non è che Veste: la Essenza di ogni Scienza si trova nella filosofia degli abiti”. Egli comprende l’importanza decisiva degli abiti e della moda nella costituzione dell’io umano, mostrando la possibilità di rendere la moda un soggetto dell’indagine filosofica, in quanto tra essa e l’identità del singolo esiste una connessione, e scandagliare l’io umano è uno degli obbiettivi della filosofia.
La moda è talmente determinante nella costituzione sociale del sé che l’identità non proviene più dalla tradizione, bensì ognuno, di libera iniziativa, sceglie chi vuole essere, o meglio, chi vuole interpretare, ma paradossalmente talvolta si vuole palesare la propria identità specifica in modo così lapalissiano che si finisce per essere “espressione di un’impersonalità astratta”.
Il concetto di moda non si limita solo al campo dell’abbigliamento, bensì ha un retaggio molto più ampio in quanto, secondo il filosofo e sociologo George Simmel, “fenomeno diffuso applicabile a tutti i campi sociali”.
Si può quindi parlare di moda come una logica, un meccanismo generale, che ruota intorno a rapidi cambiamenti, sia che siano cambiamenti generali nelle abitudini di vita, come per Kant, sia che siano cambiamenti in ambito morale, come per Novalis. Cambiamento che risulta essere, secondo il pensiero di Elisabeth Wilson, il tratto caratteristico della moda, il quale, però, non può essere ritenuta una condizione necessaria e sufficiente, poiché tutto cambia, ma non tutto necessariamente è moda.
Da questa impossibilità di definire il suddetto vocabolo come segnalazione di una determinata caratteristica applicabile a diversi ambiti, Svendsen utilizza l’approccio wittgensteniano chiamato “somiglianze di famiglia”: non essendovi tratto comune che incorpori tutti i giochi, essi sono legati tra loro da una rete di somiglianze, così come .la moda. Diretta conseguenza di ciò è l’impiego di esempi su ciò che è, o meno, moda.
Possiamo chiamare moda un cambiamento frequente desiderato in sé e per sé, perciò la sua origine è stata collocata nel tardo Medioevo durante lo sviluppo del capitalismo mercantile, in quanto in questo periodo le modificazioni delle forme degli abiti, e quindi nell’abbigliamento della gente, avvenivano in modo sostenuto e per piacere del cambiamento fine a se stesso.
Questa concezione raggiunse il suo acmè nel XVIII secolo, ove il vestiario venne usato per far sfoggio del proprio status sociale, ostentazione necessaria nella lotta di potere tra borghesia cittadina e aristocrazia feudale, e ove le innumerevoli pubblicazioni di riviste specialistiche aumentarono la velocità di informazione sulle mode del momento.
Moda del “momento” letteralmente, perché dal Settecento in poi i cicli tra un cambiamento e l’altro cominciano a diventare sempre più ravvicinati: l’essenza della moda è il cambiamento per giungere al “nuovo”, perché “è la novità che fa amare la moda” (Kant).
Questo spirito di rottura rispetto alla tradizione, di liberazione dalle autorità, a detta di Nietzsche, dove “ogni nuova Moda è […] sovvertimento contro l’oppressione della vecchia Moda” (Roland Barthes) e il costante anelito al “nuovo”, accomunano moda e modernità. Il discrimen tra i due concetti risiede nel fatto che la modernità vede se stessa come un cambiamento che conduce verso un’autodeterminazione sempre più razionale, mentre il “nuovo” nella moda in realtà coincide con il cambiamento seguente, senza lo scopo di migliorare un oggetto (ad esempio rendendolo più funzionale), quindi la vera essenza della moda è il cambiamento per il puro cambiamento.
Possiamo apostrofare la moda come “irrazionale” proprio per il fatto che non ha altro scopo se non quello di essere potenzialmente infinita, di creare “nuove forme e costellazioni all’infinito”.
Le novità delle tendenze, però, nascono sulla base di quelle precedenti, quindi esiste un limite a questa infinita novità che la moda si propone di trovare in un lasso di tempo sempre più ridotto, sempre più incalzante.
Tempo e spazio sono stati talmente compressi che hanno portato alla deformazione della temporalità della moda stessa: da lineare a ciclica, quasi un “anakyklosis” polibiana in cui l’introduzione di una moda prevede il degenero di essa e l’immediata sostituzione con un’altra, dove la vera novità non risiede nel ricreare nuove forme, ma nel giocare con quelle vecchie, un gioco tra ricordo del passato per riciclarlo e oblio del medesimo.
L’essenza della moda è sì cambiamento, ma soprattutto fugacità del cambiamento stesso, ove quest’ultimo coincide con il riciclo rielaborato di mode passate, il nuovo che caratterizza la categoria del presente coincide paradossalmente con il passato.
Il riciclaggio, dagli anni Novanta in poi, ha raggiunto un ritmo talmente frenetico da annullare l’intervallo di tempo che esisteva tra una moda e l’altra, caratterizzando il presente come una copresenza e contemporaneità di tutti gli stili, tanto che “nella società moderna nessun abito resta al di fuori della moda” (Elisabeth Wilson).
La logica sostitutiva, nella quale una tendenza nuova subentrava a quelle vecchie, viene surclassata da una logica suppletiva, dove una moda si aggiunge alle precedenti, dove le mode “si accumulano”, dove la moda non è un qualcosa in fieri, non c’è alcun progresso, vi è solo un continuo riciclo.
“Se la moda si è trasformata in riciclaggio, allora può anche permettersi di riciclare se stessa” giungendo molto probabilmente all’annichilimento.



Chiara Cesaraccio






Nessun commento:

Posta un commento